![]() | Loris Cecchini No casting (no pacific state) Stampa lambda 1998
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Nell'epoca postwarholiana un singolo gesto, accavallare le gambe, per esempio, può diventare più significativo di tutte le pagine di "Guerra e Pace". (J.G. Ballard, La mostra delle atrocità)
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Come la stereofonia o la visione tridimensionale basano la sensazione di completezza sulla divisione fra canale destro e sinistro, sottilmente sfalsati. Questo termine sta qui a indicare la presenza contemporanea di opposti piani di realtà coessenzialmente intrecciati in un'esistenza che è e resta l'unica disponibile. In un'arte che ne è la concettualizzazione formalizzata. Stereoreale: pronunciare questa parola senza pause sembra comunicare qualcosa di più. Di oltre. E questo perché in una sola emissione di pneuma trovano la loro sintesi una contraddizione o una dialettica vitale. Un po' come certe partiture di Steve Reich in cui i fiati eseguono una singola nota tenuta per quanto dura l'espirazione dell'esecutore. La dialettica è quella fra naturale e artificiale: un eterno dissidio logico e un'eterna alleanza dinamica. Cos'è un Bonsai? Cos'è un giardino all'inglese? Cosa un'opera di Beuys con la cera o il grasso? Assetti artificiali di processi naturali. Risultati altamente culturalizzati - densi cioè di rimandi simbolici - ma basati su meccaniche naturali. Nei lavori di Loris Cecchini (Milano 1969) questa dialettica appare nella sua forma più paradossale perché invece di presentarsi sotto forma biomorfa, assume immediatamente i panni di natura seconda, di codice, di convenzione linguistica e di formalizzazione artistica. Di immagine bidimensionale che irrinunciabilmente è il segno della natura segnica dell'arte. Nulla in natura si dà solo sul piano (e di recente nemmeno nel lavoro di Cecchini, preso com'è fra calchi in morbide resine sintetiche e computer-animations in 3D). Ma la fotografia, già: la scrittura di luce. Come tale la fotografia è stato per lungo tempo considerato il processo più naturale fra quelli segnici. Negli ultimi anni di questo secolo essa ha però subito un'estensione di campo. È infatti entrato a far parte della costellazione fotografica tutto un insieme di pratiche discorsive, di giochi linguistici, che nulla hanno a che fare con la tradizionale autodefinizione settoriale. Da tempo, infatti, i critici parlano di post-fotografia, ma questa tensione speciale che un tempo abitava i bordi del fenomeno (penso a Richard Hamilton che pionieristicamente usava il Paint-Box per i suoi fotoritocchi in epoca tardo-Pop) oggi è il cuore della sua identità. Pensiamo alla perfetta simulazione di naturalità con la quale il canadese Jeff Wall tratta in elettronico le sue fotografie. E le ricerche come quella di Cecchini sono vere e proprie fototensioni (adotto il neologismo che ho messo a titolo di un recente libro) che uniscono in modo problematico opposti piani di realtà, intersecando in una dissolvenza multipla diversi mondi paralleli, iconografie - posso solo accennare - di perturbante coerenza. Oggetti finti: giocattoli, modellini, scenografie estratte dal mondo del consumo, sono ripresi da un close-up che, stando alla norma della fotografia, dovrebbe garantire della loro oggettività, della loro quasi-naturalità. Ad abitare questi scenari sono persone ancor più reali, vive, vere e carnali; colte spesso nella casualità delle loro movenze, riprese come in una paradossale straight photography. La stereorealtà è il territorio di coabitazione di queste due porzioni di mondo; due messe a fuoco distinte di un solo bacino di immagini, un nastro di Möbius nel quale per un semplice meccanismo logico i piani si raddoppiano. Ecco dove la realtà naturale e quella massmediale, già doppiamente presenti nelle singole parti, si elevano a potenza in un risultato che in fondo è naturalmente una stampa fotografica: una scrittura di luce. Dal collage al pastiche le operatività soffrono di una strana forma di eterno ritorno, ma il senso dell'opera visiva - immateriale e perciò polidimensionale - non sottostà del tutto alle regole del tempo. Nessuno dimentica perciò che il fotomontaggio è un retaggio protomoderno. Il lavoro di Cecchini non finge di ignorarlo, anzi si sovraccarica delle forti e vincolanti risonanze rinascimentali, barocche, costruttiviste, surrealiste e postmoderne. Solo e semplicemente stacca un nuovo frutto maturo da una pianta antica - e il frutto non cade mai troppo distante dall'albero, si sa. |
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