Paola Di Bello
Concrete Island
R-print
2000

Strani attrattori
I non-nonluoghi e le fotografie di Paola Di Bello

Paola Di Bello
Concrete Island
R-print
1999

No, il nonluogo no!
Lo dico francamente: dopo averne parlato un bel po', dopo averli invocati a buon diritto per spiegare le iconografie urbane di un buon numero degli artisti coi quali ho collaborato, finalmente non ne posso più dei "nonluoghi". Sono convinto che qualcosa del genere esista, in fondo, ma non credo sia possibile decretare una volta per tutte cosa "sia" un nonluogo piuttosto che un luogo defunzionalizzato, un terrain vague o qual'altro ammennicolo sociologico-urbanistico si voglia aver coniato a spiegazione di quelle zone nelle quali l'entropia regna sovrana e si affermano aggregazioni subsegmentali rispetto a ogni istituzionalità.

Nei termini di...
Poi diciamo anche che, se proprio lo si vuole, un nonluogo dipende dal punto di osservazione. Voglio dire che non penso alla struttura superficiale delle edilizie non site-specific che ci fanno esclamare: "certo che un aeroporto vale proprio l'altro, neh? Come ha ragione l'Augé!"
Osserverei al riguardo che basta entrare in un autogrill e dunque arrestare la corsa che dromologicamente ci mette nella condizione di non riconoscere i tratti pertinenti di ogni singolo nonluogo nella paradigmatica dell'autostrada (diciamo).
Entriamo e parliamo, dunque; chiediamo questo caffè alla cassa: l'ordine verrà passato alla macchina con accenti diversi, movenze diverse ed ecco lì che ai nostri occhi esperti di competenti sociolinguisti per puro istinto sarà chiaro come il sole se siamo più vicini a Roma o a Firenze o se, a metà strada con Bologna, siamo già in Emilia o ancora in Toscana. Le lingue e le antropologie: costumanze e prossemiche, narrano storie localizzabili o - se proprio delocalizzabili - certo è che potranno essere riferite a un ambito provinciale al più e non certo globale né in fase di globalizzazione.
Se i nonluoghi esistono è non tanto o non solo nei termini di Augé, pur brillantissimo osservatore, quanto nei termini di Virilio: noi "siamo velocità" postula il dromologo francese, e certamente la mancata analisi dei microsegni, dei segni e sintomi presenti e disseminati nel nonluogo canonico è funzione della velocità, del non potersi fermare e dunque soffermare su di essi.
Ma non potere o non volere? Stando a Virilio la nostra velocità è ormai quella della luce nel nostro spostarci virtuale ovunque sulla rete delle reti e quindi nell'essere sempre qui e contemporaneamente ovunque. La velocità è insomma un tratto essenziale e non accessorio. Non è la variabile di una funzione traslativa (andare da A in B e metterci una settimana, un giorno e mezzo, 30 picosecondi etc.) ma il fatto stesso di essere implica l'essere in velocità. Se è così - naturalmente nell'accezione paradossale e iperbolica che contraddistingue Virilio come Baudrillard - allora ogni luogo è un nonluogo. Pensiamo alla definizione di città contemporanea tratteggiata da Virilio come "anamorfosi di una soglia".
Paola Di Bello
Concrete Island
R-print
1999

Re-focussing in "Concrete Island"
Diamo allora per scontato - come di solito propongo - che i nonluoghi esistano e insieme non esistano a seconda del gioco linguistico nel quale siamo impegnati: e cioè a seconda della velocità fisico/psichica relativa che assumiamo nei confronti di cose, persone, eventi, luoghi, contesti, pianeti e galassie - perdonate il Perecchismo 1 - parrà evidente che dobbiamo sempre e comunque riaggiustare l'obiettivo per porre nella prospettiva più propria oggetti defunzionalizzati o rifunzionalizzati. Lo sapeva perfino Duchamp che all'inizio dell'avventura dei suoi Readymades, cambiò non solo di posto ma anche di orientamento l'orinatoio perché assumesse i connotati dell'oggetto straniato.
E con ciò sono introdotto automaticamente nel mondo dei lavori recenti di una fotografa napoletana rifunzionalizzata milanese come Paola Di Bello. Déplacement di non poco momento quello di Paola che fin dai suoi primi lavori pone insieme un interesse sociologico-antropologico tipicamente analitico-funzionalista (mi consentano, di generico ma storico appannaggio del nord industriale) con una vena empatica che mira a cogliere il lato "caldo" dei fatti nudi e indicali.
Paola Di Bello infatti nella sua (ottima, dico barthesianamente riprendendomi il piacere del testo) serie "Concrete Island" dell'anno scorso e di questo, mostra di riuscire a muoversi in modo mentalmente complesso in fase di ideazione ma di riuscire allo stesso tempo a porre in essere quest'idea nel modo più semplice e visivamente economico. Capacità di sintesi, mi pare che la chiamino.
In questa serie di cibachrome compaiono infatti i tipici debris del panorama suburbano recuperati ad una vita organizzata ormai di fatto perduta, grazie all'artificio tecnico più elementare del mondo: il riorientamento dell'obiettivo in modo che le loro posizioni entropiche (sfasciate sedie adagiate su un fianco, divani appoggiati a muretti o ceramiche da bagno gettate a terra) ridiventino assiali, metriche ed euritmiche come se fossero i campioni di una fiera del modernariato.
Un viale del tramonto, una nostalgica metafora sul tempo e insieme un riaggiustamento del fuoco della nostra attenzione. Rimettere qualcosa di non più pensato al centro dei nostri pensieri è l'abilità uguale e contraria del riuscire a eseguire azioni complesse senza pensarci (noto in metodologia dell'apprendimento come de-focussing).
In questi scatti smaglianti si fondono, come piace a chi scrive, l'iperrealismo del così-com'è e la fiction del mondo alla rovescia. Letteralmente.
Paola Di Bello
Video Rom
R-print
1998

Strano interludio
I lavori di un'artista dotata di una visione, specie quando sono diversi fra loro, intimamente devono somigliarsi: uno stesso patrimonio genetico li pervade, sono tutti modalità differenti di quell'unico termine che riesco a sostituire utilmente alla decaduta nozione di stile, e cioè di un'ossessione. Anche per questo ricordo con piacere la celebre bestemmia picassiana: l'affermazione che di Cezanne gli interessava la disperazione e non le nature morte. Sfido.
E allora voglio per un istante guardare fuori quadro e cogliere con la coda dell'occhio (il terzo, per forza) le somiglianze tutt'altro che selvagge fra solo alcuni dei tanti figli della stessa ossessione - madre. Penso in primo luogo a "La Disparition" l'impressionante lavoro presentato alla XII Quadriennale di Roma dove la mappa del metro di Parigi (già nonluogo comune letterario) è ricostruita da un collage di immagini fotografiche delle porzioni di mappa appartenenti alle diverse stazioni. Se in ogni stazione milioni di utenti puntano il dito sul qui-ed-ora consumando la carta e mentalmente proiettandosi altrove, nel lavoro della Di Bello tutto il tracciato risulta consunto dalla sommatoria di tutti i qui-ed-ora di milioni di altri e di altrove (a parte il riferimento alla fotografia come indice o traccia e alla rappresentazione fotografica delle tracce degli indici etc).
Analogo solo per ambientazione è il lavoro sviluppato per la mostra "Subway" tenutasi nella metro di Milano nel '98: barboni - gli stessi ma diversi rispetto a quelli dei fotoreportage ormai stilizzati - immagini colte mentre essi dormono a terra o su panchine, ma montate verticali in modo che la figura risulti come stare in piedi, maestosa di una sua monumentalità artificiale, nemmeno abbellita: solo riposizionata sperimentalmente. Non solo re-framing (l'arte nel luogo della vita ordinaria), ma re-focussing (il margine portato al centro dell'attenzione).
Gruppi sociali altri sono indagati anche in "Video Rom", l'esperienza video-fotografica che rimescola presenza e assenza di uomini ed immagini di una comunità Rom: nel video diviso in due metà (dispositivo caro alla Di Bello) scorrono parallele le immagini dei Rom ormai in Italia e dei loro parenti ancora in Romania entrambi alle prese con immagini fotografiche gli uni degli altri nella similitudine transgeografica di luoghi, cose e persone. Mi risparmierò malvolentieri l'incredibile ridda di riflessioni sulla natura e le proprietà teoriche del mezzo video-fotografico perché suppongo vengano da sé.
Quanto al riposizionamento dell'immagine dei barboni di "Subway", esso viene usato con altri fini nel recente video "Video-Stadio" dove un pilone-percorso dello stadio di S.Siro viene ripreso a camera fissa - non a caso - mentre i tifosi defluiscono animando l'architettura con un movimento a vite. L'immagine sceglie liberamente il formato verticale nel rettangolo dell'inquadratura costringendoci ad un ennesimo re-focussing consistente nel girare fisicamente lo schermo televisivo per poter vedere l'immagine. L'ossessione crea dunque un mosaico di cui torno a prendere in mano una singola tessera: "Concrete Island".
Paola Di Bello
Concrete Island
R-print
1999

La distanza ricucita, come tenerezza critica
Torno a questi lavori per notare come il loro funzionamento sia molteplice, secondo l'abitudine, di nuovo, dei frequentatori di Perec: da un lato realmente cataloga l'incatalogabile come improbabile ma potenziale traccia rivelatrice di qualcosa di occulto inscritto segretamente nella realtà ordinaria che ci circonda. Una segnatura inprescrivibile, una simpatia da resuscitare. In questo senso non ci sfuggirà che il lavoro della Di Bello, anzi alcuni lavori suoi, possono essere inclusi nel trend che pratica l'estetica del close-up e dell'ipervicino 2.
Eppure mappando in modo così metodico i bordi del significativo - ciò che sta sul limite oltre il quale non significa più nemmeno come materiale - e riportandolo al centro del quadro la Di Bello continua un processo di comunione con l'umano che, abbiamo visto, la caratterizza fin da sempre. In lei l'ironia si mescola con l'empatia.
Non vorrei dar l'idea che i lavori di cui tratto nascondano alcunché di troppo effusivo, ma certamente il tema storico della poetica DiBelliana: la "distanza", appare come una distanza sia cronologica che spaziale fra ciò che è identico e diverso nello stesso tempo. E questa distanza è una visione critica della realtà; è un trascendere le regole e i canoni dell'immagine fatta bene per rifugiarsi nel piccolo tempio dorato dell'immagine pensata con tensione 3.
E questa distanza ricucita appare un'operazione che direi di tenerezza critica perché aprendo a tempi dilatati in cui ripensare macro e microsegni, i sintomi e le tracce dentro il paradigma del consueto e del pre-giudicato, il lavoro di Paola Di Bello getta un ponte fra nonluoghi e noncose, nonpersone e nonazioni; leggendo tutto in filigrana con attitudine critica appunto, ma con la volontà di ritessere almeno per un istante la tela sfibrata della loro esistenza. Che, a pensarci bene, potrebbe essere la nostra.

 

Note
(1) Mi riferisco al procedimento compositivo ideato da Georges Perec (1936/1982) nel suo famoso testo "Espèces d'espaces" (1974) che procede per osservazioni su nonluoghi metali, potremmo dire, pertinenti ad ambiti che procedono a ritroso dall'iperprivato al domestico, all'urbano, al nazionale fino al cosmico.
(2) Nel 1999 pubblicai sul n.4 del trimestrale di architettura "Il Progetto" un articolo intitolato "CloseUp - Primissimi piani e l'aura del qualsiasi". Non c'era la Di Bello, ma qualche idea di ricompattamento dell'epifenomeno.
(3) A quest'idea si lega il titolo del mio "Fototensioni", a parte l'idea del "dove tende" la fotografia contemporanea - avrei dovuto altrimenti chiamarlo "Fototendenze". Guai!


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