Nicola Vinci: Convalescenza e purgatorio
Partiamo dall'impatto immediato. I lavori di Nicola Vinci (Castellaneta, 1975) in primo luogo colpiscono per un paio di caratteristiche preminenti, direi lineari: si mostrano come opere fotografiche, si propongono come eleganti dittici e trittici, mostrano persone e cose entrambe ai limiti della natura morta; ma naturalmente queste coordinate non portano a nulla.
Un'osservazione più serrata delle opere infatti rivela, e in molti modi, la loro natura duplice; nella loro peculiare materialità, innanzitutto. In esse infatti le tecniche meccanico-digitali di produzione - l'uso della fotografia e la stampa digitale - non sono che il supporto per un'azione intensamente manuale fatta di interventi a pigmento, fatta di scritture graffitate a punta di metallo, fatta di inclusioni entro cornici a vetro che non solo proteggono l'opera ma ne virano il senso; e vedremo come. Queste azioni individuano, feriscono, macchiano di un sangue d'arte, e infine ospitalizzano l'altrimenti multipla, meccanica e immacolata superficie della stampa fotografica.
Pezzi unici, dunque, com'è unica la vita di ognuno di noi: pezzi simbolici allora, già per come essi sono, prima ancora che per ciò che dicono. Immagini in sospensione precaria fra eternità e caduta, fra miracolo e martirio, o più banalmente fra vita e morte. Figlie naturali del sincretismo - tutto proprio della nostra Magna GrĘcia - fra cattolicesimo e resistenze pagane; fra il potere dell'incantesimo e la litania salvifica. Opere che, quindi, alla luce del barocco trionfante, sono di salvezza e di timor mortis, e che bianche come i marmi parii, elevano e separano la sfera del divino fino a occultarla completamente con gli apparati del secolare, del simbolico.
I lavori di Vinci sono pertanto vivi di un'elegante euritmia, di una dominante candida variamente evocativa. Rituali ma non mistici, simbolici ma carnali. E difatti questa stereometria risulta alterata da un angolo infinitesimo di inclinazione, da una variazione fuori schema, da uno sbilanciamento, più selvatico. Sono animate da una forza originaria, animale, connessa all'istinto di sopravvivenza; qualcosa di irrapresentabile e che pertanto resta non rapresentata. Un'anima nera, malata - in senso figurato - ferita se si preferisce, occultata e in cerca di una forma socialmente conveniente per coprire la sua convalescenza. In esse l'apparenza umana è messa in scena nel purgatorio del non-ancora e del non-più.
Sono insomma immagini ambigue com'è ambigua da sempre e per sempre l'immagine: e questa duplicità non è un suo effetto collaterale, ma una sua componente essenziale. Rimbalzando fra la sobrietà di formati regolari e riduzioni cromatiche, e un pathos sovradeterminato, il testo visivo contemporaneo mostra solo in modo più esplicito tale natura bifronte. La fotografia in modo particolare, anche quando la sua apparente regola viene ibridata tanto radicalmente. C'è infatti nella natura stessa del mezzo fotografico qualcosa di mortuario e qualcosa di miracoloso - lo notava Barthes ormai tanto tempo fà. Un'accezione ormai datata, ma ancora efficiente, di fotografia porta ad immaginare quest'ultima come una specie di teca magica nella quale preservare in eterno le "immagini" di cose, persone o fatti svaniti, perduti, morti. In questo senso le fotografie di Vinci sono fotografie al quadrato, oltre che per il formato, anche perché nelle iconografie esse inglobano quella stessa logica convalescente, sospesa fra perdita e rigenerazione, che la fotografia ha storicamente incorporato.
Ricominciamo a osservare la serie del giovane artista pugliese per avvicinarci a una conclusione provvisoria e sospesa. Ancora dualità: l'immagine iconica è filigranata dal testo scritto. un testo interrotto, incompleto: un talismano che nel suo restare inconcluso, tiene in vita l'uomo, l'artista, lo spettatore. Alter-ego di personaggi che sono corpi feriti o distesi nell'estasi o nello spasmo, in un coma scenografico, in un sonno senza sogni che prende la forma di un incubo. Immagine e presenza, queste figure sono anche persone, ma viste da un punto di osservazione sovrumano: mai dritto negli occhi. Forme simboliche impaginate, né più né meno degli oggetti che li connotano. Solitari, ciascuno nel proprio giaciglio, nella propria teca, come i santi di strada.
Nella sintassi delle apparizioni, seriali, spettrali, va cercata la fausta sequenza dell'incantesimo: la formula apotropaica che, in questo stato purgatoriale di sospensione, di lenta guarigione da una qualche ferita originaria, tenga la vita dalla nostra parte. Un'esistenza da affrontare con lo slancio del dannato e col disperato coraggio del ferito a morte ma anche con l'intensa purezza del prescelto e lo stupore radioso del guarito.
Sto usando un linguaggio che di solito non mi appartiene, per questo gli affianco un testo silente che in qualche modo non verbale declina i punti cardinali del mio sguardo sul lavoro. Usare però questo insolito tenore della scrittura credo sia l'unica forma decente di approssimazione: l'unico protocollo di avvicinamento ad un lavoro che altera il mio asse critico, la mia euritmia, il mio candore. E infligge un'elegante ferita al mio sguardo che nello scrivere celebra, anch'esso, il rito della propria convalescenza.
Nicola Vinci: Convalescence and purgatory
Let's focus on the most direct impact of Nicola Vinci's works (Castellaneta, 1975). A couple of evident, almost straightforward features strike us at first. These artworks are photographs and it shows, they really look like elegant diptychs and triptychs, in them people and things are represented just like in a still life picture. And still such a description proves pointless.
The double-edged nature of these works variously reveals on closer inspection. Firstly because of their peculiar materiality. Mechanical and digital techniques - photography and digital printing - in fact offer a support to such handicrafts as overlaying pigment inks, scratching writings from the surface with a metal point, and finally isolating the image into frames, or rather cabinets, which also flip the reading - and we'll soon consider how. These actions wound an otherwise multiple, mechanical and stainless photographic surface, they taint it with an artful blood and finally they hospitalize it.
Therefore these are single pieces: just like we all are. These are symbolic pieces, then; because of how they are made, rather than for what they say. Images that linger in suspension between eternity and sin, between miracle and martyrdom, or simply between life and death. Images born from that natural conjugation between catholic culture and pagan remainders, something which only exists in the land of old Greek colonies. Oscillating between the magic of a spell and a saving litany.
These works, as seen through the light of the local Baroque culture, are made of both salvation and fear of death; as white as Greek marble, they both elevate and separate what is holy concealing it entirely into mundane symbolisms.
Nicola Vinci's works are elegantly eurythmic, and their white keynote is actively evocative. They prove to be ritual although not quite mystical; they look symbolic and yet all flesh and blood. As a matter of fact their balance is altered by a subtle tilting, by an unpredictable change of pattern, by a compositional unevenness: something wilde. Every piece of work is in fact animated by some kind of originary, animal strength possibly linked with the survival instinct. Something unpicturable that therefore remains unpictured. A kind of black soul, an ill one - to use a trope - wounded and hidden away in search of a convenient cover to its own convalescence. Human figure lingers in the purgatory between no-longer and not-yet.
These are ambiguous images, then. Images always were and always will be; and this duplicity is rather a main feature than a side effect to the images in themselves. Bouncing between rythmical layouts and chromatic reductions on one side, and a neurotic pathos, contemporary visual texts only show ostensibly the double edged nature of the image. Photography in particular, even if its apparent rules are drastically broken. The photographic image - as Roland Barthes used to remark - in itself has something of both mortuary and miraculous. Outdated notions of photography picture this media like a magical cabinet able to preserve forever "images" of people, things or events gone by, lost, dead. From this point of view Vinci's works are photographs squared - beyond their actual shape - because their iconographies express the same convalescent logic embodied by classic photography, suspended between loss and regeneration.
Let's start anew then, considering the artworks of this young Italian artist, so to get closer to a conclusion, although temporary and suspended. What we find is duality again: the iconic image shows a filigree made of an unresolved, unfinished text; like a talisman holding all men - be they artists or public - still into life, just because of this delay to an end.
Such text acts like an alter-ego of the characters: bodies wounded or rather lying back in extasy or in spasm, in a staged coma, in a dreamless sleep shaped as a nightmare. They are all both image and presence, yet these people are seen from above, never straight in the eyes. A layout of symbolic forms is made out of them, and out of the objects that connote them. Alone they stay, each in his/her transparent frame, like little images of saints do on the ways of southern Italy.
The serial and spectral appearance of these characters builds the sequence that will make the spell. A formula that keeps life on our side, in this state of suspension, while enduring this long-lasting recovery from some kind of originary wound. Life thus becomes something to face with the impulse of a damned soul and with the brave desperation of someone wounded to death. But also with the same intense purity a saved person would have and the same radiant wonder of the healed.
I am not accustomed to the language I am using, that is why I am coupling the written text with a silent one, made of images: they, in some ways, might also reveal my gaze. I think this unusual style in writing is the only possible approach to a work that altered my own critical balance, my peculiar rythm, my presumed candour. Wounding my gaze that, through writing, celebrates the ritual of its own convalescence.