(Auto)ritratto: fra rimeditazione e rimediazione dell'identità fotografica

Dal punto di vista della fotografia il ritratto sembra proprio la cosa più adatta da fare. Una cabina automatica - già ce lo insegnò Franco Vaccari alla Biennale del '76 - non fa altro che sputare foto-ritratti utili a certificare che noi siamo proprio noi; e una volta in più si conferma l'intuizione di Foucault che le immagini da una parte sono il cemento che tiene a forza insieme i nomi e le cose, e dall'altra sono il terreno scivoloso che scompone questa presunta unità.
Dunque facciamo un po' il punto della situazione: il ritratto fotografico parte con questa aura fossile di autenticità, a tal punto che la storia della fotografia contemporanea prevede per la maggior parte infrazioni ai luoghi comuni dell'identificazione, della classificazione e dell'autorappresentazione. La fotografia infatti nasce insieme al moderno (tardo-ottocentesco) sistema di polizia, basato sulla documentazione visiva dei pregiudicati - di fronte e di profilo - e sulla registrazione di altre impronte: quelle digitali. Per intervenire sull'immagine e smascherarne l'illusione di oggettività - illusione tecnica e di pensiero - non è stato necessario arrivare fino ai giorni del fotoritocco computerizzato, semplice scorciatoia tecnica per un problema politico, è bastato trattarla da natura prima e non da riproduzione. Negli stessi anni Venti quando August Sander andava ritraendo il popolo tedesco, tipizzando le sue categorie sociali e "immortalandone" irrimediabilmente l'umana imperfezione, dalle ceneri di Dada sbocciava il Surrealismo e tutt'attorno gli artisti coinvolti col fotografico puntavano l'obiettivo piuttosto sull'inconscio che sul volto. E di lì l'abitudine a rivelare la struttura prelogica dell'immaginario piuttosto che la sovrastruttura ordinata e repressiva del sociale. Indagine adattissima alla meravigliosa invenzione: alla fotografia che, se intesa come automatismo, può ben bene accomodarsi entro le pratiche rivelatorie, proprio come ci suggerisce l'illuminante Vaccari nel suo testo "Fotografia e inconscio tecnologico" del 1979. Ovvio che la cultura antagonista, e soprattutto Walter Benjamin, tenesse in alta stima proprio la fotografia surrealista.
Quasi un secolo ci separa da questa favola storica. Ma cosa è successo nel frattempo? Venti atlantici hanno sospinto fin da noi temi sensibili che hanno trovato nella fotografia il medium perfetto di rappresentazione: la definizione di identità in società multietniche, come quelle americane, e poi nel villaggio più o meno globale: Yinka Shonibare, a Londra, Lorna Simpson o Carrie Mae Weems, in America, sono solo autori/trici di fine secolo che riportano a galla indagini sull'autorappresentazione etnico-sociale, sull'identità femminile le ultime due, e non per ultimo sull'intreccio di comunicazione pubblica e memoria privata. Temi questi lanciati già, fra anni Sessanta e Settanta, da artisti come gli inglesi Jo Spence e Victor Burgin, alle prese con la dimensione sociale, la brasiliana Ana Mendieta, attenta al rapporto con elementi primari della natura, lo statunitense Larry Clark, perso nei bassifondi della civiltà americana, e molti altri. Nello stesso tempo però è sopravvissuto e si è rinforzato di nuove tensioni anche l'atteggiamento frontale e documentario, che ha perduto la scientificità che lo accompagnava alla nascita e anzi ha preso il posto dell'interrogazione filosofica o esistenziale, dalle risposte aperte e dalle definizioni inconcluse. In questi ultimi due decenni il genere dell'(auto)ritratto è stato indagato e questionato a fondo da artisti come i tedeschi Thomas Ruff, allievo dei coniugi Becher e celebre per i suoi grandi formati frontali e statici, e Wolfgang Tillmans, attivo però a Londra e importante ponte fra moda, club culture e arti visive; gli americani Andres Serrano, interessato alle sottoculture e abile a trattare da natura morta anche i soggetti più vivi, e Nan Goldin, più vicina a una versione a colori della ruvida poesia di strada di Clark, magari coniugata al vampirismo emotivo della Arbus, che al jet set di Tillmans; o ancora l'olandese Rineke Dijkstra, salita alla ribalta per aver riportato a dimensione monumentale il ritratto a figura intera in available light di serie coerenti di soggetti ordinari quasi tratti a forza dal flusso del vivere, un po' alla Sander. Rispetto alla tradizione, però, alterazioni dei tipi più vari si sono interposte fra l'oggetto e il suo documento: diversità di formato, di atteggiamento o di contesto, che deflettono immagini quasi qualunque e le riattraggono entro i confini dell'arte come rimeditazione e rimediazione (v. Bolter and Grusin, Remediation, MIT Press, Cambridge - Mass., 2000) di materiali documentari, di prima mano.
Bene, e da noi? Cosa succede in Italia? La fotografia concettuale - per intenderci dai tardi anni Sessanta ai primi Ottanta - non ha dato troppo retta al ritratto, primo perché ogni "genere" è visto con sospetto nel paese che ha visto l'invenzione dell'Accademia come concetto e come cosa. Secondo perché, anche volendo mettere in questione dall'interno una nozione come quella di ritratto, che preconfeziona e sclerotizza i concetti di genere artistico e di società, pure va detto che le convenzioni sociali vigenti qui da noi sono radicalmente diverse da quelle d'oltreoceano o d'oltremanica. Basta pensare al forte influsso del neorealismo, letterario e cinematografico, e del reportage folklorico sulla fotografia sociale italiana. E qui penso a lavori multiformi che vanno dai tanti "paparazzi", come Tazio Secchiaroli, vere colonne della diffusione dei rotocalchi d'informazione e/o di pettegolezzo, fino ad arrivare alla singolare reinterpretazione della verità umana data da un artista grafico come Mario Giacomelli.
Tranne cospicue eccezioni, l'Italia ha dato contributi decisivi piuttosto nella fotografia di contesto - per non dire "di paesaggio" che è categoria stretta e corta. A rientrare più volentieri nelle corde della vocazione teatrale italiana - bel cliché pure questo, no? - è invece la pratica obliqua dell'autoritratto. E quando dico obliqua intendo riferirmi al gioco di specchi Rembrandtiano che fa di questo genere uno strumento di autoanalisi e di terapia per riportare ad unità, per quanto aperta e problematica, la molteplicità di identità che l'uomo amministra in sé e per gli altri. La fotografia ha arricchito questo filone grazie al dispositivo lente-otturatore che istiga a mettere in posa l'Ego, a sceneggiarlo, offrendo una ben conscia bugia in pasto al tradizionalmente sincero e trasparente mezzo fotografico. Andrebbe distinto infatti un filone fotodocumentativo relativo alle attività effimere di performance e il lavoro autoritrattistico di studio, ma lo spazio a disposizione ci obbliga a non dividere il capello in quattro.
Nella linea europea dell'autorappresentazione non mancano capiscuola e protagonisti: dalla Svizzera con artisti che da Urs Luthi arrivano a Pipilotti Rist, all'Austria da Arnulf Rainer a Elke Kristufek; l'Olanda da Bas Jan Ader fino a Hellen van Meene; la Francia da Orlan e Colette a Rebecca Bournigault; l'Inghilterra da Gilbert and George a Catherine Opie e le gemelle Wilson; passando per la Germania che con artisti come Thomas Florschuetz ridà vita alla un tempo fiorente scuola dei coniugi Blume, di Jurgen Klauke, di Katharina Sieverding. L'America per conto suo ha vissuto una delle più ricche stagioni di critica sociopsichica dell'autorappresentazione: da Bruce Naumann o Vito Acconci a Dennis Oppenheim o Lucas Samaras, e più di recente Matthew Barney, Jeff Koons o Cindy Shermann fra i più noti. Tutt'attorno a questi centri, l'auto-rilettura è praticata da un'infinità di artisti di provenienza diversissima. Questi ultimi agiscono localmente, come la norvegese Wibeke Tandberg, o accentrandosi nelle capitali dell'arte, come il nigeriano Iké Udé a New York.
La tradizione italiana invece, trova un'origine nelle lancinanti fotodocumentazioni delle azioni di Gina Pane e, fra anni Sessanta e Settanta si impernia tra alcune specifiche uscite fotografiche di Alighiero Boetti, di Gino De Dominicis o di Luca Patella e contemporaneamente con gli attraversamenti fotografici trasversali di artisti come Michelangelo Pistoletto o di Giuseppe Penone. Ma una radice fortissima, efficiente anche a livello internazionale, è il lavoro che Luigi Ontani ha svolto su se stesso come persona(ggio) sempre sospeso sul crinale di identità e di genere. Il suo esempio, come anche quello degli americani, è senz'altro utile a contestualizzare alcune ricerche ormai mature nel panorama giovane italiano. Qui l'autoritratto non rivela anzi piuttosto ricopre di vesti di scena, un Ego multiplo o solo fragile. L'autorappresentazione invade i ruoli e i luoghi comuni della società che consuma, e consuma informazione tanto quanto beni mobili. E titolari dei più vischiosi luoghi comuni sono le sottoculture di genere: quella femminile in primis.
Artiste come Alessandra Spranzi e Ottonella Mocellin, attive a Milano, o Giulia Caira a Torino, o più di recente Francesca Semeria a Milano e Marta Valenti o Caterina Notte a Roma e perfino autrici pseudonime come D.J. Lamù a Bologna e, ancora nella capitale, Chiara; tutte in modi diversi e opposti mappano il territorio mentale che la nostra società rende loro disponibile non tanto per il loro essere donna, quanto nel loro apparire-in-quanto-donna. L'icona preconfezionata del femminile per molte di loro si sostituisce a una nozione intima di sé. La caricatura, ricorrente in molte delle artiste citate, forza i termini del discorso, lo porta all'inverosimile rivelando, a volte involontariamente, il paradosso fra la loro libertà d'accesso al sistema dell'arte e il cliché-donna che le marca nonostante ciò. La nota, relativamente nuova, è il senso di libertà nello spendere, alterare, ricondurre ad altro media - o ad altro incastro testo-contesto - questa identità, mentre ancora la comunicazione di massa interpreta l'identità femminile come sollecitazione al desiderio e moneta di scambio commerciale.
Intersecata a questi temi l'identità nazionale è indagata da artiste come la turca Sukran Moral, la canadese Myriam Laplante e la svizzera Nathalie Perissé, tutte attive a Roma, o in modo più intimo dalla francese Sabine Delafon, attiva a Torino; tutte della loro molteplicità e attraversamento culturale hanno fatto una figura retorica più ampia. Analogo è il discorso, ma da parte maschile, dell'albanese Sislej Xhafa, attualmente spostatosi negli Stati Uniti dopo aver a lungo lavorato in Italia, che in modo ironico ma problematico mette piuttosto in scena la natura geopoliticamente interstiziale della propria nazionalità. Sul crinale della teatrale ambiguità sessuale Francesco Impellizzeri, attivo a Roma, così come anche Francesca Semeria a Milano, imperniano invece un viraggio ironico-kitsch dell'identità pubblica mediata attraverso i canoni della cultura massmediale. Autoritratto come larga metafora sociale e umana nei casi del romano Alessandro Gianvenuti, di Robert Gligorov in ambito milanese o di Gianluca Cosci tra Bologna e Londra. L'autorappresentazione al maschile, più rara di quella femminile e sovradeterminata anche da motivi legati all'educazione, sposta sul contesto il fuoco del proprio discorso. Nella rimediazione dell'Ego e nella sua messa in opera, sia essa ad alto o basso profilo tecnologico, si gioca la rimeditazione operata dai primi due, filtrata dall'inconscio digitale per Gianvenuti o da performance e ibridazioni mediali per Gligorov. Più scarno e scabroso - di radice più secca e mitteleuropea - il lavoro di Cosci si avvicina alla tonalità esistenziale e drammatica propria anche a diverse serie di Alessandra Spranzi, non per ultimo nell'utilizzo di "altre cose" in senso (auto)ritrattistico. L'asciuttezza denotativa dell'immagine e il sottile controcanto dei pochi elementi connotativi trova invece un alternativa nelle più recenti prove di Cesare Viel, attivo a Genova e Milano, il quale di solito interagisce coi suoi sempiterni cartelloni scritti a mano, aprendo un discorso sull'immaginario verbale, di rado affrontato in ambito italiano.
Fin qui nella larghissima area d'influenza dell'autoritratto. Non vorrei però dimenticare i lavori sul ritratto di gruppo inteso come forte mappatura sociale e antropologica. Già mi sono soffermato poco tempo addietro sul lavoro del duo De Blasi e Moscara, attivi a Lecce, non ancora su Domenica Bucalo, attualmente attiva a New York. Entrambe i casi ricadono in quell'ambito definibile come "fotografia costruita" (staged, secondo la terminologia internazionale) ed in modi e maniere dissimili, affrontano ugualmente i temi dell'autorappresentazione di gruppo. Ovvero la definizione identitaria dei gruppi attraverso azioni comuni, possessi comuni, interazioni che costituiscono un fondamentale legante psico-sociale.
Non pochi degli artisti qui richiamati hanno trovato nella fotografia un mezzo ideale di cristallizzazione dei luoghi comuni: una formalità già predisposta dalla società per inquadrare l'autorappresentazione - propriamente framing in inglese vale tanto incorniciare o inquadrare, quanto "mettere in mezzo", incastrare. Tuttavia non va dimenticato che l'esperienza analogica, cioè di apparente rispondenza diretta fra oggetto/fatto sorgente e immagine mediale/mediata si è espansa all'inverosimile, complicandosi e perfino rivolgendosi nel proprio contrario a seguito dell'avvento del digitale. L'esperienza fotografica, se dobbiamo considerarla chiusa nell'immagine statica, si è certo in molti casi arricchita, spesso complicata, e qualche rara volta persa, nella vertigine dell'infografia ovvero dell'alterazione computerizzata. Più sicura e stimolante via di fuga dal cliché tecnico-formale della fotografia per le ricerche artistiche recenti è rappresentata dal concetto ibrido, vivissimo nei paesi anglosassoni, di immagine fotografica come indifferenziazione fra cine, foto, video e infografia. E, non in pace con quest'ultimo confine, alcuni trovano nell'azione in tempo reale, nell'installazione in spazi effettivi o nella disseminazione sul Web, ulteriori vie alternative per giocare le proprie variabili.
Rimeditazione e rimediazione sono due volti della stessa presa in carico delle forme e mezzi con i quali gli artisti giovani - e noi con loro - costruiamo la nostra consapevolezza del Sé, dell'altro e dell'ambito nel quale realmente o potenzialmente interagiamo. I più diversi media, non mi stanco di ripeterlo, costituiscono il mondo ma non lo sostituiscono (alla Baudrillard). L'integrazione fra la flagranza e la narrazione è oggi evidente mentre un tempo era solo latente. I nuovi media hanno solo spezzettato e reso a tratti non coerente una narrazione che è stata metanarrazione, è stata mito, e sotto forma di demagogia o di favola morale si è resa comunque attiva nell'immaginario di ogni strato della popolazione, non solo dei più deboli e criticamente inermi. L'esperienza del mondo che il pensatore francese Paul Virilio definisce "stereoreale" ovvero costituita essenzialmente dal doppio canale di realtà e medialità - o meglio di flagranza e mediazione - non è che l'aggiornamento di un meccanismo attivo dall'alba dei tempi, non essendo il singolo uomo in grado di far esperienza diretta del mondo nella sua totalità, o non fidandosi della sua verità, e affidando al racconto, alla mediazione, l'implementazione della propria memoria (quantitativamente) e il rafforzamento dei propri valori (qualitativamente). L'arte ha sempre posto in questione simili estensioni di memoria/valore, ponendo in questione se stessa che ne è una delle più blasonate.
Quale meraviglia allora se il ritratto e l'autoritratto diventano il perfetto terreno di battaglia - mi scuso per l'infelice metafora - sul quale si confrontano proprio queste due forme di conoscenza? Nulla è più insicuro e necessario della conoscenza di sé e dell'altro da sé come specchio e deformazione del sé. I giovani artisti intrecciano oggi tutto questo nei loro (auto)ritratti, nelle loro immagini. Immagini, cioè e per sempre non parole, ma presenze attive, rimeditazioni e rimediazioni di ciò che già è così in qualche modo per qualcuno: transiti verso ciò che sarà o già quel qualcosa, in attesa di luce.
E se questo non è un ritratto veridico della situazione - ma quale potrebbe esserlo inquestionabilmente? - varrà allora, quantomeno, come un parziale e autentico (auto)ritratto.


Juliet Photo-Magazine


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